L’Europa mette al bando i motori endotermici e perde un know-how ingegneristico di oltre cento anni per privilegiare una presunta sostenibilità ambientale che l’industria automotive europea non è in grado di affrontare ad armi pari contro la Cina che ringrazia diventando il primo esportatore mondiale.
L’Unione Europea ha recentemente avviato un’indagine antidumping contro i produttori cinesi di veicoli. Accusati di abbattere gli oneri produttivi attraverso manodopera a basso costo, pratiche commerciali sleali e sovvenzioni governative che minerebbero la parità di condizioni in un regime di concorrenza. L’ampio ricorso ai sussidi statali da parte delle aziende cinesi è però cosa nota da anni, visto che il Governo del Dragone ha messo sul piatto tra il 2016 e il 2022 circa 57 miliardi di euro a supporto della mobilità elettrica. Contro i circa 12 miliardi stanziati dagli Stati Uniti nel medesimo arco temporale.
Una differenza enorme che già da sola basterebbe a dimostrare come la reazione di Bruxelles sia pressoché tardiva, nei tempi e nelle forme. Nei tempi perché la Cina è da circa 20 anni che sta perseguendo con decisione e ingenti risorse finanziarie una politica industriale volta a sfruttare il paradigma della transizione energetica per imporsi come il principale player globale nelle tecnologie verdi e digitali. Nelle forme perché la vera discriminate in senso negativo è la scelta di mettere al bando nel Vecchio Continente i motori endotermici dal 2035. Buttando nel gabinetto oltre cento anni di know-how tecnologico che rappresenta tuttora il fiore all’occhiello dell’ingegneria motoristica europea.
Produzione globale in mano alla Cina
Le più recenti vetture elettriche sono in effetti tutto tranne che un concentrato di meccanica evoluta. Nel senso che a farla da padrone è l’elettronica. Mutuata peraltro da quella di consumo che il Celeste Impero maneggia ormai al pari degli Stati Uniti. Così come le batterie, ambito quest’ultimo nel quale la Cina controlla sia il 60 per cento della produzione globale sia le materie prime che servono per la loro realizzazione. Lo scorso anno ha infatti estratto quasi i tre quinti degli elementi di terre rare usati come componenti nell’elettronica. Raffinando il 60 per cento del litio mondiale e l’80 per cento del cobalto, due minerali fondamentali per i moderni accumulatori ad alta efficienza.
La parte meccanica delle vetture elettriche è invece ridotta all’osso. Privata di quei motori endotermici e di quelle trasmissioni che per l’industria automotive cinese sono sempre stati un mistero irrisolto causa le centinaia di componenti in movimento, l’impiego di materiali sempre più raffinati e la necessità di ricerche approfondite sulla dinamica di gas e fluidi. Tutte competenze superflue per la messa a punto di powertrain full electric che basandosi su semplici motori elettrici operanti congiuntamente a trasmissioni monomarcia non necessitano di alberi di rinvio, di frizioni, di impianti di lubrificazione e di raffreddamento dedicati e di soluzioni estetico-funzionali che impattano sul design del veicolo, come le prese d’aria per il radiatore.
Lo stop ai motori costerà l’8% del Pil europeo
Naturale quindi che la semplificazione meccanica delle vetture abbia permesso anche a realtà con minori competenze e know-how di recuperare terreno in un mercato in cui fino a quel momento occupavano una posizione marginale. Potendo giovarsi anche di costi produttivi e di tempi di sviluppo minori rispetto agli standard occidentali che di fatto hanno alzato la posta in gioco non solo dal punto di vista economico, ma anche a livello sociale. Secondo i dati Acea, l’associazione dei costruttori europei, sono circa 13 milioni i lavoratori continentali occupati direttamente o indirettamente nell’industria automotive, circa il sette per cento dell’intera forza lavoro del Vecchio Continente.
Il comparto assicura inoltre ogni anno un gettito fiscale agli Stati membri che ospitano stabilimenti pari a circa 375 miliardi di euro e il suo fatturato nel complesso rappresenta oltre l’otto per cento del Pil dell’intera Unione Europea. Numeri destinati a contrarsi significativamente con la messa al bando dei motori endotermici e con l’impossibilità di competere ad armi pari nella mobilità elettrica privata con una Cina che lo scorso anno è diventata il primo esportatore mondiale di autovetture superando il Giappone.
I tentativi cinesi di espandersi nei mercati esteri erano stati peraltro deludenti fino a pochi anni fa. Con volumi inferiori alle 500 mila unità fino al 2020. Da lì in poi il però il Dragone ha cambiato marcia, arrivando a superare i quattro milioni di veicoli nel 2023. E se all’inizio l’export cinese era indirizzato quasi esclusivamente verso i Paesi meno evoluti, oggi quasi la metà delle autovetture spedite oltre confine arrivano in Europa. Due terzi delle quali a batteria.
Prezzo medio 31.829 euro
La crescita del mercato interno cinese, sempre sostenuto da sussidi governativi, ha poi fatto da traino per aziende in grado di coprire autonomamente molti aspetti chiave della supply chain. Il gruppo Byd, recentemente salito agli onori delle cronache per aver sorpassato Tesla nei dati di vendita di auto elettriche del quarto trimestre del 2023 a livello globale, ha in effetti iniziato la propria attività negli Anni 90 facendosi le ossa come produttore di batterie, per passare alle vetture elettriche e ibride plug-in solo dal 2008.
Una crescita progressiva e programmata che, secondo un’analisi delle banca svizzera Ubs, permette a Byd di minimizzare i costi produttivi del 25 per cento rispetto alle case europee e statunitensi. È anche grazie a ciò che, secondo i rilevamenti della società di ricerca Jato Dynamics, le auto elettriche cinesi costano circa il 30 per cento in meno rispetto alle loro equivalenti europee e statunitensi. Con un prezzo medio che lo scorso anno si è fermato a 31 mila 829 euro. Contro i 55 mila e 821 euro e i 63 mila 864 euro rispettivamente di Europa e Stati Uniti.
A fronte di ciò, la scalata di Pechino nell’automotive appare come una vera e propria storia di successo. Politicamente guidata e graditamente assecondata dai produttori dietro lauti sussidi statali. Mentre l’industria europea di settore sembra andare in direzione diametralmente opposta. Il mercato dell’elettrico è in effetti per molti consumatori inaccessibile a livello di costi. La burocrazia è ingessata dai vincoli sugli aiuti di Stato e l’assenza di una visione strategica a livello politico ha sottovalutato la necessità di creare catene di fornitura stabili e sicure, al riparo da potenziali ritorsioni straniere, assecondando piuttosto le delocalizzazioni e le importazioni a basso costo.
L’Europa perde know-how e la Cina ringrazia
Una situazione destinata a esasperarsi ulteriormente con l’imminente saturazione del mercato cinese che all’atto pratico spingerà sempre più le case del Celeste Impero ad aumentare l’offensiva commerciale verso l’Occidente. Al punto che secondo la società di consulenza AlixPartners le vendite annuali di vetture full electric cinesi sui mercati esteri raggiungeranno i nove milioni entro il 2030. Volumi che si tradurrebbero per i brand cinesi in una quota di mercato del 30 per cento a livello globale e del 15 per cento a livello europeo. Una tendenza confermata anche da Transport & Enviroment. La ong che ha fatto molte pressioni a favore dello scellerato stop europeo ai motori endotermici previsto per il 2035, che stima come le vetture elettriche cinesi possano raggiungere una quota di mercato globale del 18 per cento già entro la fine del prossimo anno.
Se è vera l’ipotesi avanzata da Akio Toyoda, presidente del consiglio di amministrazione di Toyota, secondo il quale l’auto elettrica andrà a coprire il 30 per cento del mercato globale, di fatto accadrà che di quel 30 per cento quasi due terzi saranno in mano ai costruttori cinesi che, nel frattempo, avranno maturato o acquisito anche le competenze necessarie per dar luogo a mezzi propulsi per via endotermica. Il rischio che in assenza di decisioni da qui al 2030 l’industria europea di settore crolli è concreto e quel che è peggio senza che l’ambiente ne tragga giovamento visto che se c’è un aspetto produttivo cui i Cinesi al momento non sembrano interessati è proprio quello relativo alla tutela ambientale.
L’Europa perde know-how e la Cina ringrazia
Autore: Andrea Castelli